IL VIZIO ASSURDO
Davide Lajolo
arteideologia raccolta supplementi
nomade n. 7 dicembre 2013
RINEGOZIARE GLI ATTI MANCATI
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Quando Pavese giunse a Roma per lo «Strega» parve a tutti un altro uomo. Aveva persino indossato un vestito nuova di taglio elegante. Sepper persino sorridere alla consegna del premio. Attorno tutti gli battevano le mani, amici e non amici. Doris Dawling, la sorella diConstance, gli era affettuosamente vicino, quasi a fargli meno amara l’assenza della sorella.
Ma sono giorni che passano per Pavese come acqua sul marmo.
Qualche settimana dopo gli amici di Milano, quelli del «Bagutta» lo invitano a una cena. Vogliono onorare anche loro il vincitore del «Premio Strega», l'autore de La bella estate, e c'è in molti la curiosità di vedere come Pavese, lo scrittore più scontroso d'Italia, sia riuscito a diventare un uomo mondano.
Quando giunse a Milano si precipitò come un bolide nel mio ufficio, al giornale in piazza Cavour. Ricordo che erano le sei del pomeriggio. Ironizzai affabilmente sul suo vestito elegante e gli offrii il regalo che gli avevo preparato: una pipa dalla forma solenne, di pura marca inglese.
Sorrise appena, mi ringraziò mettendomi una mano sulla spalla. Si affrettò invece a dirmi che al pranzo da Bagutta non sarebbe andato. «Non me la sento, portami invece a casa tua. Se tua moglie non ha nulla di pronto, non importa. Che serve mangiare? Tabacco ne ho. Proverò la tua pipa.»
«Che dici? Vergani ha gia preparato il discorso. Non puoi offendere chi ti vuol bene davvero e Ferrata e Tofanelli e Sereni e Aldrovandi e tanti altri. Ti aspettano tutti. E poi ci saranno le donne.  Sei ormai un rubacuori.»
«Le donne non aspettano me» mi rispose cupo.
«Eppure ce n'è una che, son sicuro, aspetta solo te. Ecco, te lo faccio confermare da lei stessa al telefono.» Formai il numero, una voce squillante rispose. Feci le presentazioni e Pavese soffiò un «grazie» risentito.
«Verrò ad un patto solo,» mi disse «questo: che ci mettano in un tavolo l'uno accanto all'altro.»
Quando fummo al ristorante Bagutta, Pavese volle sedersi accanto a me. Parlò pochissimo, con gli occhi sempre fissi chissà dove. Poi la ragazza bionda che gli avevo presentato per telefono «lo torturò» citandogli i personaggi di tutti i suoi libri. Egli si schermiva, lei lo accarezzava con gli occhi. A quel calore improvviso parve ridestarsi. Ascoltò con gli occhi fissi su una bottiglia d'acqua minerale il discorso caldo e familiare di Vergani.
«Vergani è sempre così bravo» mi disse piano «ha la magia in queste cose.»
Uscimmo fuori nella notte milanese, limpida e soffusa.
«Vedi» disse indicandomi il cielo «la luna splende ancora.»
All'indomani avvenne tra noi la conversazione cui ho fatto cenno nella prefazione, poi Pavese partì per andare a passare qualche giorno al mare.
«Alla fine d'agosto verrò a Vinchio» mi disse salutandomi «poi a piedi, ricordatelo bene, a piedi, andremo a S. Stefano a trovare il Nuto. Porterò del tabacco speciale.»
Ma il mare gli aggravò l'esaurimento e lo incupì ancor di più.
Doveva rimanervi fino alla fine d'agosto, ma scappò dopo pochi giorni senza dir nulla a nessuno diretto a Santo Stefano. Voleva parlare ancora una volta col Nuto. «Se non vengo da te, non riesco più a scambiare quattro parole.»
La campagna pare rasserenarlo. Non confida al Nuto il suo tormento, né 'assurdo proposito che va maturando. Parla come sempre di libri, di politica, di piante. Nuto sta lavorando per finire una bigoncia. «La devo consegnare domani, la vendemmia s'avvicina.» Pavese l'interrompe: «Perché  le bigonce non l'hai chiamate col loro vero nome piemontese, gli Arbe?»
«Perche voglio anch'io andare in bigoncia» risponde Nuto ridendo.
«Hai ragione tu» ribatte Pavese. Poi si appartano sotto il pergolato di glicini e Pavese fa al Nuto l'ultima confidenza.
«Sai, domani vado a Roma. La sorella di Constance mi darà la risposta. Se la telefonata che Constance le fara dall'America, sarà positiva, sposerò Constance.»
Ed il Nuto contrariato: «Pensaci ancora, Cesare. Una donna straniera, così strana come dici, non fa per te. Con tante belle ragazze semplici che ci sono dalle nostre parti, proprio una americana devi andare a sposare... ti pentiresti presto.»
«Non importa; lo so, durerà al massimo due anni. Due anni in più da vivere.» 

E all'indomani partì per Roma. Fu l'ultimo viaggio. Tornò dopo due giorni a Torino. La notizia sperata non era venuta.
Fu il colpo di grazia finale che bastò a ricordargli il suo fallimento definitivo.
«Non ho sposato te» gli aveva detto la donna dalla voce rauca tanti anni prima «perchè sai fare poesie ma non sei buono per una donna.»
Da allora s'era aperto quel precipizio nel quale ora sprofondava. Si convinse che tutto era inutile, che non aveva più nulla da scrivere, che non era adatto alla politica, che non valeva né per le donne, né per gli amici, né per se stesso.
Annota furiosamente sul Diario:
Lo stoicismo è il suicidio. Del resto sui fronti la gente ha ricominciato a morire. Se mai ci sarà un mondo pacifico, felice, che penserà di queste cose? Forse quello che noi penseremo dei cannibali, dei sacrifici aztechi, del processo alle streghe.

Ancora un tentativo disperato di contatto umano. Una sera si decide ad andare da solo a sentire un'orchestra suonare. Si reca presso una pista da ballo, alla sala Gai. Entra disinvolto come fosse un vecchio habitué, un ballerino impenitente. Ma non sa ballare. S'imbatte in una ragazza che è anch'essa sola, seduta ad un tavolino: giovane, più bella che brutta; lui la guarda e lei sorride; escono assieme.
Il 16 agosto, il giorno dopo quell’incontro, scrive sul Diario:

Perché morire? I suicidi sono omicidi timidi. Masochismo invece che sadismo. Non ho più nulla da chiedere.
Poi il 17 agosto:
Guardo il consuntivo dell’anno che non finirò. Basta un po' di coraggio.

Nello stesso giorno scrive l'ultima lettera alla sorella che si trova in campagna a Serralunga. E’ una lettera triste e suona polemica per Maria che è religiosissima. Dentro la busta pone cinquemila lire. Ed ecco la chiusa agghiacciante;

Dio mi ha dato grandi doti. Ha però dato il cancro a molti, altri li ha creati scemi, altri li ha fatti cadere da piccoli. Non si sa dove sia questa grande bontà. Ecco 5000 lire per il parroco di Castellazzo, così continuerà a predicare storielle, speriamo che ci creda almeno lui.State bene. Io sto bene come un pesce nel ghiaccio.Cesare

La sorella s'affretta a tornare il giorno dopo. Lo trova con gli occhi infossati, arrossati, d'una magrezza impressionante.
«Che fai» gli chiede «non mangi?»
Nessuna risposta come al solito.

Di giorno, in un braciere che ha collocato al centro della sua stanza, distrugge col fuoco lettere su lettere e scritti, documenti, fotografie. Cosi per due giorni. Passa le notti con le luci accese, ma al mattino quando s'alza e la sorella lo chiama per il caffé  non si lamenta più né dell'insonnia, né dell'asma. E’ diventato stranamente paziente, persino gentile.
Anche il Diario in quei giorni rimane con le pagine bianche, aperto sulla sua scrivania, sopra della quale sta per la prima volta un libro solo: i Dialoghi con Leucò. Ha smesso anche di leggere. Telefona spesso e alle sue chiamate risponde quasi sempre una voce femminile, quella della ragazza incontrata alla sala Gai. Dopo l'ultima telefonata si reca all'appuntamento.
Il sabato mattino del 26 agosto prega la sorella di preparargli la solita valigetta che usa per i brevi viaggi. Maria non si fa meraviglie. Quasi ogni sabato, infatti, Cesare partiva per andare a passare la domenica fuori Torino con i Ruatta o con i Rubino. Quel giorno si reca in via Valdocco alla redazione de «l'Unita». Trova Paolo Spriano, un giovane amico, e senza dirgli altro gli chiede soltanto, se nell'archivio del giornale esiste una sua fotografia. Spriano gliene mostra parecchie. «Questa va bene» dice Pavese, indicando quella dove il suo volto appare più triste, e se ne va sorridendo.
Alle prime ore del pomeriggio, dopo aver messo nella valigia i Dialoghi con Leucò, Cesare lascia la casa di via Lamarmora con un semplice cenno di saluto, come sempre. Scende le scale, valigetta alla mano, e va a prendere il tram diretto a Porta Nuova. Ma invece di incamminarsi verso la stazione, si dirige dalla parte opposta, all'Albergo Roma.
Chiede una camera con telefono; gliel'assegnano al terzo piano. Sale e si ritira nella sua camera. Poi chiede in continuo numeri telefonici. Telefona a tre, quattro donne. Chiede compagnia, le invita a cena. Insiste particolarmente con Fernanda Pivano, ma essa, che andrebbe volentieri perché ha potuto finalmente fare la pace con lui dopo tanti anni, ha il marito malato e non può uscire.
L'ultima telefonata Pavese la fa alla ragazza della sala Gai. Ma la risposta è dura. La ricorderà la centralinista di servizio dell'albergo: «Non vengo perché sei un musone e mi annoi.»
Pavese attacca il telefono; non è sceso per il pranzo, non scende neppure per la cena. Da quella stanza non scenderà più vivo.
Soltanto la domenica sera 27 agosto, alle venti e trenta, un cameriere, preoccupato di quel cliente che non si è fatto vivo per tutta la giornata, bussa due, tre volte, poi vi batte contro colpi sempre più forti. Poiché non riceve risposta, si decide a forzare la porta.
Quando la porta cede sotto la spallata, un gatto sguscia nella stanza. Cesare Pavese è morto. Giace vestito, disteso sul letto, composto. Si è tolto solamente le scarpe.
Sul comodino sono ancora sedici bustine aperte dei sonniferi che ha ingoiato per togliersi la vita. Accanto i Dialoghi con Leucò aperto alla prima pagina dove ha lasciato scritte queste parole:
Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi.
L'ultima frase del Diario scritta in data 18 agosto aveva ancora un sapore letterario:
Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più.
Quella scritta sui Dialoghi con Leucò è invece tutta umana e riflette la sua fredda determinazione.
Lunedi mattino 28 agosto, ricevetti a Vinchio un espresso. Riconobbi subito la calligrafia di Pavese, ero sicuro che mi avrebbe comunicato il giorno nel quale sarebbe arrivato come mi aveva promesso. Ma non ebbi il tempo di aprirlo, perché sulla «Stampa Sera» di quello stesso lunedì mattino vidi la sua fotografia e la notizia.
L'espresso che mi aveva indirizzato, datato Torino, 25 agosto sera, si chiudeva così:
Visto che dei miei amori si paria dalle Alpi a Capo Passero, ti dirò soltanto che, come Cortez, mi sono bruciato dietro le navi. Non so se troverò il tesoro di Montezuma, ma so che nell'altipiano di Tenochtitlan si fanno sacrifici umani. Da molti anni non pensavo più a queste cose, scrivevo. Ora non scriverò piu! Con la stessa testardaggine, con la stessa stoica volontà delle Langhe, faro il mio viaggio nel regno dei morti. Se vuoi sapere chi sono adesso, rileggiti «La belva» nei Dialoghi con Leucò: come sempre, avevo previsto tutto cinque anni fa. Meno parlerai di questa faccenda con «gente» più te ne sarò grato. Ma lo potrò ancora? Sai tu cosa dovrai fare.
Ciao per sempre
tuo Cesare
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